Competizione geopolitica o proxy war? Il Caucaso meridionale e le politiche di sicurezza di Russia e Stati Uniti

  • Marco Valigi
Parole chiave: Caucaso, Russia, USA, Armenia, Georgia, Azerbaijan

Abstract

Che la regione caucasica sia convenzionalmente un’area contesa tra grandi potenze è noto; tuttavia, in concomitanza con la drastica riduzione dei prezzi del greggio, il rallentamento dell’economa cinese e l’aggravarsi della crisi in Ucraina, negli ultimi anni la rilevanza strategica di questi territori potrebbe apparire meno evidente rispetto al recente passato. In realtà, le cose stanno diversamente: il Caucaso non solo non ha perso di rilevanza, ma anzi costituisce un tassello cruciale nell’attuale impostazione delle strategie di sicurezza nazionale russa e statunitense in Eurasia al punto che, in futuro, rischia di diventare il teatro di vere e proprie guerre per procura, o proxy war. Due casi in particolare attirano l’attenzione: quello della Georgia, legata a Washington, e quello dell’Armenia, a tutti gli effetti un “satellite” di Mosca.

Dopo la guerra del 2008, dove l’esuberanza del presidente georgiano Mikhail Saakashvili aveva dovuto fare i conti con la cautela di Barak Obama e l’efficacia dell’offensiva militare russa, la Georgia era tornata a fare parte della strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti: un partner la cui integrità territoriale forse non poteva essere riconquistata ma che, proprio per questa ragione, andava mantenuto ancorato all’Occidente. Soprattutto durante il suo primo mandato, l’impressione che si poteva trarre dall’atteggiamento di Obama verso il Caucaso e l’Asia centrale era che l’epoca della geopolitica fosse giunta al capolinea e che la competizione tra grandi potenze per il controllo su quella regione fosse una reminiscenza del XX secolo: materia, insomma, da teorici della Guerra fredda alla Brzezinski.

Nonostante le manifestazioni di principio da parte di Washington, l’approccio dell’amministrazione Obama sembra aver spinto il Caucaso verso il fondo all’agenda politica americana. Fautore della rivoluzione – incompiuta diremmo oggi – dello shale gas, Obama ha smantellato le strutture diplomatiche e le reti di relazioni costruite nei tardi anni Novanta in seguito alla firma del cosiddetto “Contratto del secolo”, azzerando di fatto quanto realizzato dai suoi predecessori attraverso la oil diplomacy. Unico assetto rimasto in essere era infatti la NATO Partnership for Peace – iniziativa alla quale non solo la Georgia ha aderito, ma entro la cui cornice il paese caucasico ha altresì contribuito, seppur simbolicamente, alla missione in Afghanistan. Il resto della vicenda è storia nota e ampiamente dibattuta tanto dalla stampa quanto dagli analisti e riguarda la crisi in Ucraina: uno scacchiere dove, dopo la già citata guerra del 2008, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno incassato una sonora sconfitta, soprattutto sul piano della reputazione.

Sull’onda lunga del Russia gate e della propensione di Donald Trump a mettere in discussione le partnership tradizionali – in primis quella con gli europei – a favore di alleati meno critici e più propensi a valorizzare una diplomazia centrata sui rapporti personali fra i massimi esponenti dei rispettivi esecutivi, la Georgia è tornata a essere esplicitamente menzionata nella strategia di sicurezza nazionale (NSS-17). Facendo ricorso a una retorica riconducibile a quella di una nuova Guerra fredda, l’amministrazione Trump sembra orientata a contenere il regime di Vladimir Putin, autorizzando la vendita a Tbilisi di una fornitura di missili anticarro Javelin per un valore di 75 milioni di dollari. Lo scenario parrebbe quindi prossimo o comunque preliminare a una cosiddetta proxy war. Se anche così non fosse, è evidente che il clima politico nel Caucaso meridionale è mutato e che le relazioni tra Stati Uniti e Georgia sono oggi giunte a uno stadio sconosciuto durante gli otto anni in cui Obama era alla Casa Bianca. Resta da vedere se e come gli attuali leader georgiani sapranno sfruttare a proprio favore il rinnovato impegno statunitense.

I presidenti Trump e Saakashvili nel 2012. Fonte: Whitehouse/Instagram

Uno scenario speculare, d’altra parte, sembra essere quello che caratterizza le relazioni tra Armenia e Russia. Generalmente ricordata in ambito di relazioni internazionali per l’influenza della propria diaspora presso il governo degli Stati Uniti e per il conflitto protratto – o congelato – con l’Azerbaigian, l’Armenia è, diversamente dalla Georgia, uno stato praticamente privo di un’economia propria, il cui regime si regge essenzialmente su due elementi: il supporto esterno da parte di Mosca e la capacità dei propri leader di mantenere un atteggiamento risoluto rispetto al vicino azero. Nella fattispecie, questo secondo elemento si è rivelato nel tempo funzionale alla legittimazione delle élite di potere all’interno dello stato armeno, dove la lobby del Karabakh resta tuttora la più influente rispetto agli equilibri tra i diversi clan.

La dipendenza armena da Mosca costituisce un fenomeno di lungo corso, originato in seguito al “blocco” turco-azero seguito alla guerra in Nagorno-Karabakh. Approfonditasi in un arco temporale di circa 25 anni, si tratta di una relazione connotata da un mix di fattori di vantaggio reciproco e controllo. Se da un lato, infatti, Erevan risulta inequivocabilmente dipendente da Mosca sul piano economico e militare – la Russia è infatti il primo fornitore di armi del regime armeno nel confronto con Baku – dall’altro l’Armenia ospita gli unici presidi militari russi in Caucaso (Gymuri e Erebuni) la cui rilevanza strategica, dati i delicati equilibri con il governo di Tbilisi, non va affatto sottostimata.

I presidenti Putin e Sargsyan nel 2013. Fonte: asbarez.com

Anche i fenomeni politici più recenti, del resto, evidenziano come benché nel paese vi sia un profondo desiderio di cambiamento politico – la “Rivoluzione di velluto” della scorsa estate ne è la prova – in materia di sicurezza le priorità rimangano le medesime. Garantitasi dall’eventualità di un’ingerenza diretta nei propri affari interni da parte di Mosca attraverso l’adesione nel 2014 all’Unione Economica Eurasiatica, l’Armenia tutt’oggi insiste sulla centralità della collaborazione militare con la Russia, come ribadito dal neoeletto premier Nikol Pashnyan. In parallelo, dopo gli anni di intransigenza nei riguardi di Baku vissuti durante la presidenza Sargsyan – che del nemico esterno aveva fatto uno strumento di coesione interna funzionale a sostenere la propria struttura di potere e una vasta rete di interessi clientelari – la risoluzione della disputa con l’Azerbaigian si conferma come prioritaria per il governo di Erevan. In questo ambito, in particolare, l’eccessivo irrigidimento della precedente leadership – che aveva isolato l’Armenia dalla comunità internazionale – pare avesse in ultima istanza scontentato anche Mosca.  Pur non avendo giocato alcun ruolo nella svolta parlamentare interna all’Armenia, infatti, il Cremlino appare in questa fase più favorevole rispetto al passato a un progressivo allentamento delle tensioni tra Erevan e Baku e ad accettare che entrambi i paesi facciano ricorso a un approccio diplomatico multidimensionale.

Trump e Putin al G-20 di Amburgo nel 2017. Fonte: kremlin.ru

Indubbiamente, il riacutizzarsi delle tensioni nelle relazioni bilaterali tra Mosca e Washington potrebbe avere effetti negativi anche sul Caucaso che pare torni a giocare un ruolo cruciale nelle rispettive strategie di sicurezza. Tuttavia, sul versante russo, l’impressione attuale è che il Cremlino non intenda drenare le limitate risorse di cui dispone per supportare alleati bellicosi in un quadrante dove, probabilmente, risulta più remunerativo ricorrere ai tradizionali metodi della politica di equilibrio e di una diplomazia prudente e pragmatica. In particolare, è interessante osservare come, in una sorta di gioco a somma zero, all’irrigidimento di una parte (in questo caso Washington) sia subentrata una maggiore flessibilità dell’altra. Tale bilanciamento di interessi, ancorché non ottimale, tende del resto a produrre un equilibrio geopolitico nella regione, il che – a detta di chi scrive – è di buon auspicio affinché essa arrivi progressivamente a giocare quel ruolo di giunto logistico-strategico tra Occidente e Oriente che, negli ultimi anni, appariva parzialmente messo in discussione dall’evoluzione dell’agenda politica internazionale.

 

Per saperne di più

Ferrari, A. (2005) Il Caucaso: popoli e conflitti di una frontiera europea, Edizioni Lavoro.

De Waal, T. (2010) The Caucasus: An Introduction, Oxford University Press.

Valigi, M. (a cura di) (2014), Il Caspio – Sicurezza, conflitti e risorse energetiche, Laterza.

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Pubblicato
2019-08-01