La crisi dei Rohingya: tra emergenza umanitaria e insicurezza umana

  • Kyaw Zeyar Win
Parole chiave: Genocidio, Rohingya, Myanmar, Sicurezza, Conflitto

Abstract

A partire dall’agosto 2017, il Tatmadaw, cioè l’esercito birmano, ha condotto una serie di brutali “operazioni di pulizia” (clearance operations), essenzialmente campagne di terra bruciata in risposta agli attacchi della Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) contro i posti di guardia della polizia di frontiera (Myanmar Border Guard Police, BGP) nel distretto di Maungdaw, nello stato Rakhine. Tali operazioni hanno causato la morte di migliaia di civili rohingya, lo stupro (e lo stupro di gruppo) di centinaia di ragazze e donne, l’arresto arbitrario e la tortura di diverse centinaia di persone. In soli tre mesi dal 25 agosto 2017, più di 350 villaggi rohingya sono stati bruciati mentre villaggi limitrofi rimanevano intatti e molte proprietà dei Rohingya sono state saccheggiate da militari birmani ed estremisti locali. Essere una comunità senza stato ha reso i Rohingya estremamente vulnerabili per decenni, anche prima della pesante offensiva militare del 2017, che però mette in luce criticità e preoccupazioni per la sicurezza umana.

Secondo recenti dati delle Nazioni Unite, il Bangladesh ospita oggi oltre 900mila rifugiati rohingya a Ukhia e Teknaf Upazilas, quasi la metà dei quali sono bambini (circa 36.373 orfani). La stragrande maggioranza dei rifugiati vive in condizioni estreme, in strutture temporanee esposte ai forti venti e le forti piogge della stagione dei monsoni. Dal canto suo, Dacca ha promosso una serie di iniziative tra i suoi ministeri per fornire l’assistenza e i servizi medici necessari, per coordinare l’arrivo degli aiuti umanitari internazionali e la registrazione dei rifugiati. Il Bangladesh è però esso stesso un paese piccolo, sovraffollato e con risorse limitate, incapace quindi di gestire un afflusso massiccio di profughi sul lungo periodo. La risposta bangladese così come quella internazionale hanno fatto fronte almeno in parte ai bisogni urgenti dei rifugiati, ma rimangono inadeguate, soprattutto per quanto riguarda la protezione contro la violenza di genere e il contrasto al traffico di droga e di esseri umani.

Guardando al di là della generosità che il Bangladesh mostra al mondo, però, è possibile notare crescenti tensioni sociali, malcontento, frustrazioni e paure che col tempo hanno generato rabbia e risentimento fra i membri della comunità ospitante. I locali si lamentano dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e dei trasporti, della perdita di posti di lavoro, della mancanza di sicurezza, della distruzione dei raccolti, dei danni all’ambiente e della diffusione di malattie. Il massiccio afflusso di rifugiati ha cambiato la demografia delle aree di Ukhia e Teknaf, dove i locali sono ora in inferiorità numerica di due a uno rispetto ai Rohingya.  Alla solidarietà nei confronti dei rifugiati rohingya si sommano alcune percezioni negative e stereotipate. In particolare, le questioni legate alla sicurezza rappresentano una delle sfide principali per il Bangladesh, una sfida che si aggraverà con il protrarsi dell’accoglienza dei rifugiati rohingya.

Nonostante sia spesso descritta come l’emergenza rifugiati dallo sviluppo più rapido al mondo e un incubo dal punto di vista umanitario e dei diritti umani, la cosiddetta “crisi dei Rohingya” non è un fenomeno nuovo.  Centinaia di migliaia di Musulmani rohingya hanno dovuto fuggire da brutali campagne militari e da indicibili atrocità nel 1978, nel 1992 e poi di nuovo nel 2012. I fattori che stanno alla base di questi esodi ricorrenti – come ad esempio la negata cittadinanza – non dovrebbero pertanto essere oscurati dalla situazione umanitaria di Cox’s Bazar. La spinosa questione dei Rohingya è figlia di politiche e pratiche istituzionalizzate di esclusione e dell’effetto retroattivo della legge del 1982 sulla cittadinanza in Myanmar. L’attuale crisi dei rifugiati rohingya e i loro bisogni più immediati sono infatti una conseguenza della mancanza di cittadinanza. Senza una prospettiva di sicurezza umana, adottare un approccio puramente umanitario non è sufficiente per affrontare le cause strutturali.

Negli ultimi quattro decenni, la comunità rohingya è stata sistematicamente “denazionalizzata”, passando dallo status di vera e propria cittadinanza a quello, de facto, di apolidia, con le conseguenti deprivazioni e limitazioni dei loro diritti (tra cui quello alla libertà di circolazione, all’accesso all’educazione e ai servizi sanitari) e vere e proprie violazioni dei diritti umani (come nel caso del controllo dei matrimoni e delle nascite da parte del governo del Myanmar). Nonostante la presenza dei Rohingya nel paese da diverse generazioni e il passato riconoscimento del diritto di voto e di servizio per alte cariche politiche e istituzionali, la legge sulla cittadinanza del 1982 (1982 Myanmar Citizenship Law) non inserisce i Rohingya fra i 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti e il governo li etichetta dunque come immigrati illegali dal Bangladesh.

I successivi regimi militari del Myanmar hanno poi politicizzato e utilizzato le differenze etniche come strumento per dividere lo stato e polarizzare la società su linee culturali, linguistiche o religiose, con notevoli effetti sulla sostanza della cittadinanza in un paese multietnico come il Myanmar. I Rohingya sono quindi stati discriminati e demonizzati come minaccia esistenziale alla sicurezza e sovranità del paese dall’élite nazionalista birmana al fine di “distrarre” l’opinione pubblica dai fallimenti del progetto di costruzione dello stato e dipingere se stessi come i salvatori della nazione o come i leader “più appropriati” per gestire questo tipo di minacce. Con il pretesto di proteggere la sicurezza nazionale, i Rohingya sono stati arbitrariamente privati della loro cittadinanza e costretti a vivere in aree designate sotto severe restrizioni ed essenzialmente tagliati fuori dal resto del paese. Questa narrativa, tuttavia, contraddice la situazione reale in cui le politiche e le pratiche discriminatorie si traducono in violenza strutturale, che a sua volta genera conflitti tra le diverse comunità e costituisce di per sé una minaccia diretta alla sicurezza del Myanmar: la sicurezza umana è una delle pietre angolari della sicurezza nazionale.

Ancora oggi la maggior parte della popolazione rohingya è intrappolata nelle zone di conflitto del nord dello stato Rakhine, con oltre 128mila Rohingya confinati in squallidi campi di sfollati (Internally Displaced Persons, IDP) dai quali non possono allontanarsi a seguito delle ondate di violenza del 2012. I Rohingya sono oggi soggetti a gravi violazioni dei diritti umani e scarsissime possibilità di accesso ai loro bisogni fondamentali, fra cui l’accesso ai mezzi di sussistenza, all’istruzione, alla sanità e ai servizi di base, oltre a essere vittime delle continue intimidazioni da parte delle forze di sicurezza del Myanmar.

Inoltre, prima delle elezioni del 2015, il Parlamento dell’Unione del Myanmar ha intenzionalmente modificato la legge sulla registrazione elettorale per escludere la comunità rohingya dal voto e da candidature alle future elezioni, sempre rifacendosi a questioni di sicurezza e sovranità nazionali. Di conseguenza, i quasi 500mila Rohingya che avevano partecipato alle precedenti elezioni sono stati di fatto privati del diritto di voto, mentre diversi candidati rohingya sono ora non eleggibili. Tutto ciò costituisce una grave violazione dei diritti politici fondamentali ed ha causato il peggioramento di una situazione umanitaria già precaria.

Con la negazione della cittadinanza i Rohingya hanno perso anche i loro diritti fondamentali, incluso il diritto di rivendicare la protezione legale dei diritti economici, politici, sociali e culturali, divenendo così estremamente vulnerabili ai continui maltrattamenti e allo sfollamento forzato. Pertanto, i Rohingya non sono solo esposti alle diverse minacce alla sicurezza umana, ma hanno anche scarsissime opzioni per ridurre questa loro vulnerabilità o per prendere in mano il loro futuro.

L’obiettivo ultimo e a lungo termine dei rifugiati Rohingya è tornare a casa in modo sicuro, volontario e dignitoso. La tragica realtà è però che il rimpatrio della stragrande maggioranza di loro è improbabile, almeno nel prossimo futuro. Nel frattempo, le Nazioni Unite e la comunità internazionale dovrebbero assumere un ruolo guida nel tradurre le risposte alla crisi umanitaria in soluzioni che soddisfino le esigenze di protezione dei rifugiati sul medio-lungo termine, garantendo cioè condizioni di vita sicure e sostenibili. La gestione della crisi e l’assistenza umanitaria hanno per ora contribuito efficacemente a far fronte ai bisogni urgenti dei rifugiati rohingya, ma le condizioni di sicurezza rimangono fragili. 

La maggior parte dei Rohingya vive in un’atmosfera virulenta all’interno di campi squallidi. La scarsa applicazione della legge in campi dove diversi gruppi criminali operano liberamente e impunemente costituisce una delle preoccupazioni principali per la sicurezza dei rifugiati, soprattutto per quanto riguarda la violenza di genere, i matrimoni forzati, le intimidazioni, i rapimenti, il traffico di stupefacenti e di esseri umani.  I campi rifugiati sono quindi diventati un terreno fertile per la criminalità e, di conseguenza, i membri della comunità rohingya sono molto più esposti al reclutamento da parte di malavitosi, di gruppi estremisti o di trafficanti di droga e di persone. Far rispettare la legge e l’ordine nei campi profughi è pertanto imperativo, tanto per i rifugiati rohingya quanto per la comunità ospitante.

Nei campi è ancora vietato l’accesso all’istruzione formale, il che rende i giovani rifugiati incapaci di costruirsi un futuro. I bambini rohingya avrebbero bisogno di una scolarizzazione formale che vada oltre le soluzioni di apprendimento provvisorie, per poter ricostruire la loro comunità e contribuire allo sviluppo del paese. L’accesso all’istruzione è peraltro un loro diritto inalienabile, e Dacca dovrebbe quindi permettere alle organizzazioni locali e internazionali di fornire un’istruzione formale e adeguata nei campi. Il governo del Bangladesh e le istituzioni internazionali dovrebbero poi mettere in atto programmi di coesione sociale per mitigare le tensioni tra comunità ospitanti e rifugiati. Allo stesso modo, tutti i rifugiati dovrebbero avere a disposizione maggiori opportunità di formazione professionale e di sostentamento per poter limitare la loro dipendenza dagli aiuti umanitari.

Come già accennato, una soluzione sostenibile alle cause profonde di questa tragedia umana va cercata nel Myanmar stesso. La mera assistenza umanitaria e la condanna internazionale di un abominio ormai di lunga data, semplicemente, non possono risolvere la crisi se non sono accompagnate da azioni specifiche: occorre adottare un approccio di sicurezza umana per risolvere la crisi dei Rohingya a partire dalle sue cause profonde e affrontando dunque il problema della negazione della cittadinanza. Il concetto di human security sfida infatti la concezione tradizionale della sicurezza nazionale, accentuando la dimensione personale e sociale della sicurezza e valorizzando la dignità di ogni individuo. Se si osserva la questione della negazione della cittadinanza ai Rohingya attraverso un approccio di sicurezza umana, appare evidente che la già menzionata legge del 1982 dovrebbe essere rivista per restituire diritto di cittadinanza e proprietà ai Rohingya. Inoltre, in quanto firmatario della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, il Myanmar avrebbe l’obbligo di garantire che tutti i bambini nel paese possano godere a pieno titolo dello status e dei diritti di cittadinanza. Questo appare l’unico modo per interrompere questa spirale generazionale di apolidia.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) dovrebbe svolgere – ai sensi dell’art. 11 della Convenzione sulla riduzione dell’apolidia del 1961 – un ruolo di mediatore attivo tra il governo del Myanmar e i Rohingya, promuovendo al contempo un impegno costruttivo con il governo del Myanmar. In maniera simile, ripristinare il diritto di voto ai Rohingya più in difficoltà contribuirebbe al raggiungimento di una soluzione politica più olistica. La sovranità e la sicurezza nazionale del Myanmar possono essere efficacemente bilanciate dall’applicazione di politiche di cittadinanza inclusiva, sottolineando così diritti fondamentali, libertà e dignità dell’individuo.

Infine, il sistema giudiziario dovrebbe essere rafforzato sulla base delle competenze delle istituzioni preposte a garantire la responsabilità degli autori di crimini atroci ai sensi del diritto penale internazionale. I cittadini del Myanmar hanno l’obbligo di contrastare la cultura di impunità che prevale oggi al fine di affermare lo stato di diritto e garantire la sicurezza di ogni individuo.

Tre bambini nei campi IDP in Bangladesh. Fonte: Kyaw Zeyar Win

 

Vita quotidiana all’interno dei campi IDP. Fonte: Kyaw Zeyar Win

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Pubblicato
2019-08-01