La dimensione politica delle diaspore generate dai conflitti

  • Élise Féron
Parole chiave: Diaspora, Conflitto, Rifugiati, Immigrazione

Abstract

Nel corso dei decenni, e soprattutto sull’onda della cosiddetta “crisi migratoria”, la letteratura scientifica sulle diaspore e sulla loro dimensione politica ha subito una forte crescita. Si guarda alle diaspore come attori politici transnazionali o concentrandosi sulle politiche degli Stati di accoglienza in materia di migrazione e integrazione, sui tentativi degli Stati di origine di controllarle, oppure sulle politiche e sugli strumenti delle organizzazioni internazionali per gestirle, dell’Unione Europea in primis. Il concetto di diaspora è fortemente dibattuto ed è generalmente definito sulla base delle seguenti caratteristiche principali: la dispersione di persone (volontaria o involontaria);  il mito del Paese di origine e la memoria condivisa; la relazione complicata con il Paese di insediamento; l’impegno attivo per la sicurezza e la prosperità della patria; l’esistenza della “questione del ritorno” (ma non necessariamente un concreto impegno in tal senso); e, in ultimo, una consapevolezza e una solidarietà che possono essere espresse attraverso la creazione di comunità e organizzazioni. Visti da questa prospettiva, gruppi di migranti possono costituire una diaspora se col tempo sviluppano questi elementi organizzativi e di auto-rappresentazione su cui costruire un’identità comune.

Fra le svariate tipologie di diaspora, quelle generate dal conflitto richiamano una attenzione accademica e politica sempre maggiore. Si pensa spesso che queste diaspore in particolare creino maggiore instabilità nei luoghi di insediamento o che addirittura stabiliscano o mantengano collegamenti con il “terrorismo internazionale”. Tali processi sono stati descritti dal mondo accademico come fenomeni di “conflict transportation” o “conflict importation“, cioè trasporto o importazione del conflitto. Secondo la letteratura, questi possono basarsi su due configurazioni distinte, ma verosimilmente interconnesse: da una parte membri di fazioni che combattono nel Paese di origine continuano il conflitto nel Paese di insediamento (come nell’eventualità di scontri fra i membri di gruppi etnici rivali); dall’altra, un gruppo diasporico crea tensioni all’interno della società di insediamento o tra il Paese di origine e quello ospitante a causa delle sue attività connesse al conflitto (o percepite come tali). È il caso, per esempio, delle recenti tensioni fra Stati Uniti e Turchia riguardanti le attività di Fethullah Gülen su suolo americano.

La modalità più diffusa di conflict transportation è discorsiva e simbolica, includendo anche l’uso di violenza verbale. Simboli e distintivi vengono sfoggiati durante eventi pubblici come dimostrazioni e commemorazioni, ma possono anche essere usati nelle pubblicazioni e nelle comunicazioni di varie comunità locali. Nella fattispecie, ogni anno a Londra i membri della diaspora greco-cipriota celebrano il 9 luglio la rivolta di Cipro del 1821, mentre il 21 luglio i membri della diaspora turca celebrano l’”operazione di pace” turca del 1974 (chiamata invece “invasione” dai Greco-Ciprioti). Un conflitto può anche essere importato a livello sociale tramite alti tassi di endogamia e segregazione spaziale. In Belgio, ad esempio, i membri della diaspora ruandese di etnia Hutu vivono prevalentemente in alcune zone specifiche di Bruxelles come Matongé o in città fiamminghe come Termonde, Verviers o Dendermonde, mentre la diaspora di etnia Tutsi vive nel centro della città di Bruxelles. I conflitti possono infine essere trasportati attraverso l’uso di diverse forme di violenza fisica come la distruzione di beni e proprietà, l’aggressione, gli scontri durante le dimostrazioni oppure quelli inter-etnici e inter-religiosi.

Commemorazione del genocidio ruandese a Bruxelles. Fonte: News of Rwanda (2015)

Il più delle volte la conflict transportation assume una forma non violenta grazie a internet, forum online e social media, ma esistono numerosi esempi – storici e non – di conflitti “trasportati” o “importati” che hanno causato considerevoli livelli di sofferenza e violenza. È questo il caso degli scontri recenti tra gruppi diasporici curdi e turchi in Belgio, Germania, Paesi Bassi, Francia e altri Stati europei. Sono comuni anche gli scontri violenti fra migranti etiopi e eritrei, ad esempio tra i gruppi che cercano di migrare nel Regno Unito dal nord della Francia.

Nei processi di conflict transportation e nella determinazione delle caratteristiche e dell’evoluzione dell’identità e della politica delle comunità diasporiche vi sono molteplici fattori in gioco. Gli stessi processi di migrazione sono spesso causa di disorientamento e preoccupazione per via del profondo sradicamento che comportano. Migrare genera spesso un senso di insicurezza identitaria, specialmente nel caso in cui si subiscano episodi di marginalizzazione, discriminazione e razzismo nel Paese di insediamento. Questo senso di insicurezza finisce a sua volta per ridefinire le identità e la percezione che gli individui hanno di sé e del loro gruppo di appartenenza, spesso in termini di riscoperta e “sovrainvestimento” nelle proprie radici e origini. In questo senso, i processi di radicalizzazione osservati nelle dinamiche delle diaspore possono derivare dal bisogno di mantenere in vita la cultura e le tradizioni del gruppo in situazioni di forte stress.

Si assiste quindi a un processo di “ri-tradizionalizzazione” che enfatizza la centralità dei valori e dei simboli e che attribuisce maggiore importanza a elementi culturali e religiosi, considerati i capisaldi dell’identità del gruppo. In maniera interessante, spesso questa riscoperta delle tradizioni da parte delle diaspore si concentra su aspetti culturali che non sono necessariamente centrali in patria come ad esempio la religione nel caso delle diaspore cipriote. Inoltre, per molte comunità a carattere diasporico – come nel caso degli Armeni – l’importanza della religione è data non solo dalla sua centralità nell’identità nazionale in patria, ma anche dal fatto che essa rappresenta un elemento culturale fortemente distintivo nei confronti della società di insediamento e in quelli di altre diaspore.

Per contro, e parallelamente, il desiderio e la necessità di essere ascoltati dalle istituzioni dello stato di insediamento può portare all’offuscamento delle differenze tra gruppi originari di una stessa regione. Quando ciò avviene, le diaspore tendono quindi a far riferimento a un più ampio gruppo culturale che è più facilmente identificabile e rispettato nel Paese ospitante come nel caso di parte della diaspora turco-cipriota nel Regno Unito che si identifica più genericamente con la quella turca o, specularmente, parte della diaspora greco-cipriota che si identifica con quella greca. In maniera simile, a Londra vi sono bande di giovani provenienti dal sud-est asiatico definite lungo linee religiose piuttosto che nazionali.

È importante anche notare come il fatto stesso di insediarsi in Paesi democratici offra ai membri delle diaspore maggiori opzioni e scelte politiche. Nel Regno Unito, ad esempio, alcuni Turchi Ciprioti hanno condannato pubblicamente e ripetutamente l’intervento militare turco in Cipro del 1974, cosa che sarebbe difficilmente possibile fare nella Repubblica turca di Cipro del Nord. Anche le istituzioni e le politiche nei Paesi di origine (come i Ministeri della Diaspora in Armenia, Georgia, Irlanda o Serbia, insieme a diversi altri Paesi del mondo) giocano un ruolo centrale nelle dinamiche delle diaspore e contribuiscono al mantenimento di legami strutturali, gestendo i flussi delle rimesse, ma anche controllando l’espressione della volontà politica all’interno della diaspora. Più forti sono questi legami, più la dimensione politica delle diaspore tende a riflettere quella dei discorsi ufficiali in patria, anche nell’eventualità in cui una grossa fetta della diaspora non fosse d’accordo con tali posizioni.

Protesta cipriota contro la Turchia a Londra. Fonte: SigmaLive (2016)

Anche le istituzioni e le politiche nei Paesi di origine (come i Ministeri della Diaspora in Armenia, Georgia, Irlanda o Serbia, insieme a diversi altri Paesi del mondo) giocano un ruolo centrale nelle dinamiche delle diaspore e contribuiscono al mantenimento di legami strutturali, gestendo i flussi delle rimesse, ma anche controllando l’espressione della volontà politica all’interno della diaspora. Più forti sono questi legami, più la dimensione politica delle diaspore tende a riflettere quella dei discorsi ufficiali in patria, anche nell’eventualità in cui una grossa fetta della diaspora non fosse d’accordo con tali posizioni.
Anche le divisioni interne alle diaspore generate dai conflitti hanno un considerevole impatto sulla loro mobilitazione politica. I cosiddetti “imprenditori etnici” possono infatti sfruttare questa eterogeneità e investire nelle identità correlate al conflitto per promuovere il sostegno e la mobilitazione fra i membri della diaspora. È interessante notare però che ciononostante gli imprenditori etnici sembrano spesso più interessati a quello che succede nei Paesi di insediamento che agli avvenimenti nel Paese di origine. In molti casi, infatti, invece di essere organizzazioni “nazionaliste a distanza” a supporto dei belligeranti in patria, le organizzazioni a carattere diasporico generate dai conflitti dedicano una parte considerevole delle loro risorse al sostegno di attività sociali, educative, culturali e di beneficienza nel Paese ospitante.
Lo status giuridico di cui godono i gruppi diasporici influisce altresì sulla loro mobilitazione poiché influenza la capacità dei membri della diaspora di intervenire nella vita politica dello stato che li ospita. L’evidenza empirica sembra suggerire che la mancanza di uno status giuridico favorisca sia i fenomeni di radicalizzazione che la riattivazione di vecchi conflitti e divisioni identitarie preesistenti. A tal proposito, però, vale la pena ricordare che l’accesso allo status giuridico può variare sensibilmente all’interno di una stessa diaspora, come esemplificato da varie sezioni di quella ruandese, in parte legali e in parte no.
In definitiva, se è vero che molte comunità diasporiche mantengono forti legami con i loro Paesi di origine e coltivano le loro differenze culturali, politiche e religiose nei Paesi di insediamento, è anche vero che questo non si traduce necessariamente e direttamente in processi di conflict importation. Inoltre, ciò che lo studio della dimensione politica delle diaspore generate dai conflitti suggerisce è che anche quando hanno luogo processi di radicalizzazione, essi non sono mai lineari o automatici. Contribuiscono infatti alla mobilitazione politica delle diaspore tanto i fattori interni, come le difficoltà socio-economiche talvolta fronteggiate nelle società ospitanti, quanto quelli esterni, come certi fatti o eventi che si verificano nel Paese di origine. Per analizzare e comprendere la politica interna alle diaspore generate dai conflitti, è perciò fondamentale tenere in considerazione le loro peculiarità storiche e contestuali in quanto le diaspore rappresentano realtà situate e operanti in uno spazio transnazionale, cioè non interamente “qua” né completamente “là”.

Per saperne di più:

Democratic Progress Institute (2014) Makers or Breakers of Peace. The Role of Diasporas in Conflict Resolution. Disponibile su: http://www.democraticprogress.org/wp-content/uploads/2014/08/Makers-or-Breakers-of-Peace-The-Role-of-Diasporas-in-Conflict-Resolution.pdf

RAND Europe (2014) Mapping Diasporas in the European Union and United States. Comparative analysis and recommendations for engagement. Disponibile su: http://www.rand.org/content/dam/rand/pubs/research_reports/RR600/RR671/RAND_RR671.pdf

Vertovec, S. (2005) The Political Importance of Diasporas, Migration Policy Institute. Disponibile su: http://www.migrationpolicy.org/article/political-importance-diasporas

Published in:
Pubblicato
2019-07-29