Il peacebuilding italiano: un primo ritratto e due possibili sviluppi

  • Lorraine Charbonnier
  • Stefano Ruzza

Abstract

Le pagine di Human Security hanno accolto, in questo numero, una riflessione sul peacebuilding italiano attraverso le voci dei suoi protagonisti. L’interessante ritratto che emerge ne evidenzia i tratti costitutivi, le peculiarità, i punti di forza e le debolezze. L’auspicio è che questo quadro di sintesi possa costituire una traccia per riflessioni future, ma anche un contributo utile a valorizzare e rafforzare questa importante prassi nel nostro paese. Tra i diversi punti emersi, quello inerente a collegamenti e fratture tra teoria e pratica del peacebuilding è quello che più di altri merita di essere messo al centro di una discussione più approfondita. Per amor di chiarezza anticipiamo che, nel caso italiano, la conclusione alla quale si giunge a valle di questa disamina è l’esistenza di un parziale scollamento tra le due componenti. Nonostante ciò sia fonte di limitazioni e problemi, ha anche risvolti positivi. Vediamo il perché, e valutiamo cosa è possibile fare, in prospettiva, per migliorare la resa del peacebuilding italiano

Partiamo dal piano dei principi, dove l’apertura e la reattività del sistema Italia appaiono notevoli. A livello normativo il peacebuilding è esplicitamente indicato tra le priorità nazionali (si veda in proposito quanto scritto da Luisa Del Turco, Direttrice del Centro Studi Difesa Civile), il che dimostra una chiara sensibilità del paese verso il tema. Questo dato può essere collocato all’interno di una dimensione classica della politica estera italiana, vale a dire la sua propensione al multilateralismo e a riflettere internamente norme emergenti di diritto internazionale, in particolare quando già fatte proprie dalle Nazioni Unite (elemento richiamato anche da Emanuele Russo, Presidente di Amnesty International Italia). I precedenti non mancano e vale la pena ricordarne qualcuno. Un primo esempio è fornito dalla Convenzione internazionale contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’addestramento dei mercenari del 1989. Nonostante tale convenzione sia entrata in vigore soltanto nel 2001, l’Italia ne ha rese operative le prescrizioni nel suo ordinamento interno già nel 1995, con la Legge 210. Non si tratta di un caso unico. La risoluzione 1325 su “Donne, pace e sicurezza”, volta ad accrescere il ruolo femminile nelle dinamiche di trasformazione dei conflitti e di sostegno alla pace, e adottata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2000, ha già prodotto tre piani di attuazione a livello nazionale. Questi casi dimostrano la perdurante sensibilità italiana verso i temi costitutivi del peacebuilding, nonché la capacità e la volontà di recepire gli orientamenti emergenti a livello internazionale anche sul piano interno. In tema di principi, la stessa vivacità del legislatore è ben visibile anche nella società civile. Quest’ultima agisce inoltre da watchdog, ricordando alla politica gli impegni assunti, cercando così di garantire la migliore aderenza tra i principi e la prassi (come non manca di fare anche Russo nelle scorse pagine).

Quando si passa dal piano astratto a quello più prettamente pratico, la valutazione resta positiva. Da questo punto di vista contano le innumerevoli iniziative – di piccola scala, ma non solo – realizzate dalla società civile italiana, a fianco delle quali vanno collocate quelle degli attori istituzionali, per prime quelle svolte in attuazione del proprio mandato dalle diverse emanazioni del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI). Il Consigliere di Ambasciata Mario Alberto Bartoli, a capo del VI ufficio (OSCE) della Direzione Generale per gli Affari Politici e di Sicurezza, ha ben sottolineato nelle pagine precedenti come la Presidenza italiana dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa sia stata in grado di dare un particolare spin alle iniziative della stessa Organizzazione, migliorando le prospettive di pace in Transnistria e Ucraina. Non è questo l’unico esempio, come emerge dal contributo della Rappresentante Permanente dell’Italia alle Nazioni Unite, l’Ambasciatrice Mariangela Zappia, e dall conversazione con il Rappresentante Permanente dell’Italia alla NATO, l’Ambasciatore Francesco Talò. L’Italia ha la capacità di generare risultati positivi sia in termini di prevenzione del conflitto violento sia di consolidamento della pace. Questo tanto in virtù del suo ruolo all’interno di organismi multilaterali (ovviamente in ambito Nazioni Unite, ma anche in contesti più “securitari”, come OSCE e NATO), quanto grazie ai propri assetti nazionali (in primis le Forze Armate, Carabinieri inclusi). Si tratta di sforzi che hanno una dimensione qualitativa ulteriore rispetto alla semplice quantità di fondi e di risorse messi a disposizione della comunità internazionale dall’Italia. Oltre alla forza delle sue singole componenti, il peacebuilding “all’italiana” può contare anche su un buon livello di sinergia tra attori governativi e non come richiamato nelle pagine precedenti. Nella conversazione con Talò è stato menzionato il tandem tra Comunità di Sant’Egidio e Forze Armate nel contribuire a una svolta positiva del conflitto mozambicano negli anni novanta. Riccardo Toso, volontario dei Corpi Civili della Pace (CCP), da una prospettiva nettamente diversa (e da tutt’altra area del globo), ha richiamato la capacità del sistema Italia di creare spazi in cui la società civile nazionale può poi utilmente operare. Ciò anche – e soprattutto – interfacciandosi con realtà locali e garantendo, così, il rispetto del principio di local ownership, cioè di controllo locale dei processi, a garanzia del fatto che il loro esito sia il più possibile vicino alle reali esigenze della popolazione.

Pur non mancando elementi positivi a tutti i livelli, resta la necessità di spiegare perché l’impatto del peacebuilding italiano sia complessivamente inferiore rispetto a quello di altri paesi occidentali ed europei, come indicato dagli studi condotti da ECPDM. In parte è certamente una questione di risorse limitate, ma esiste anche un problema di integrazione efficace tra principi e pratica del peacebuilding. A tal proposito, Toso ricorda il ruolo dell’Italia nel garantire la sostenibilità di progetti importanti per il contesto colombiano, unito però all’assenza del nostro paese dai tavoli in cui si decide. Ciò risuona con l’osservazione, che emerge trasversalmente da più autori, secondo cui l’Italia sovente opera in modo diverso da altri paesi: anziché partire dai concetti per poi applicarli nella pratica, si comincia attuando processi, per poi assemblarli all’interno di un sistema più o meno organico. Ammesso che questo processo possa garantire una migliore aderenza alle realtà locali (piuttosto che a criteri astratti formulati in qualche ufficio ministeriale o aula universitaria), rischia tuttavia di generare risultati frammentari, il cui valore complessivo è inferiore a quello delle risorse impiegate. Oltretutto, questo modo di procedere rende difficile comunicare importanza ed esiti dello sforzo italiano in favore del peacebuilding alla nostra stessa opinione pubblica.

Se si tiene presente quanto si è detto in apertura di questo articolo, si può notare che il difetto italiano non è sul piano dei principi, dove c’è forte attivismo relativo alla rapida ricezione degli orientamenti più avanzati prodotti in materia di peacebuilding. Ciò che manca è piuttosto un processo che conduca all’applicazione sul campo dei principi accolti in astratto all’interno di un quadro coerente. In sostanza, quel che manca è un anello di congiunzione tra principi e pratica, che dia vita a un indirizzo del peacebuilding italiano, o una sua strategia, chiaramente non intensa nel senso militare del termine, ma piuttosto in quello teleologico, di definizione degli obiettivi e valutazione dei mezzi più idonei.

Detto in altre parole: i principi sono in buona parte frutto di un processo di acquisizione dall’esterno, e le prassi cercano di ricongiungersi ai principi – dal campo alla torre d’avorio per così dire –, ma manca un passaggio intermedio volto a rendere operativi e attuabili i principi, e di conseguenza funzionale a organizzare e coordinare tra loro le attività pratiche. In Italia non esiste un singolo ufficio o attore istituzionalmente deputato all’implementazione del peacebuilding, né un protocollo consolidato che presieda all’amalgama delle diverse attività, come avviene ad esempio in Germania o in Svezia. Questo rende inevitabilmente difficile adottare un approccio whole-of-government (che potenzialmente coinvolga, cioè, tutta l’amministrazione pubblica) e ovviamente ancora di più un approccio whole-of-society, che unisca cioè governo, istituzioni e società civile negli sforzi in favore della pace.

L’assenza di un punto di riferimento unico del peacebuilding italiano – in qualunque forma lo si voglia immaginare, sia esso un ufficio, un modello operativo o uno spazio di condivisione dedicato – può ben essere considerato una concausa della mancanza di un indirizzo più organico relativo a questa attività, se non la sua causa prima. Su questa nota, è possibile osservare che, tanto nelle istituzioni quanto presso le organizzazioni della società civile, manca un inquadramento autonomo del peacebuilding. Sovente questa attività viene inserita nel calderone della cooperazione allo sviluppo, che, seppur collegata al peacebuilding, è una cosa di natura diversa. Ciò fa supporre che per l’Italia valga con particolare forza il motto per il quale lo sviluppo genera pace. Questo non è di per sé particolarmente sorprendente, poiché è la narrativa dominante (anche se l’equivalenza proposta non è sempre corretta né immediata), ma si tratta di capire se l’adozione di tale equivalenza sia il frutto di una scelta consapevole e ragionata (anche se non esplicitata pubblicamente) oppure una sorta di default imposto dall’assenza, in Italia, di una “casa” specifica per il peacebuilding.

Su un piano diverso ma collegato, si può osservare che il discorso sul peacebuilding in Italia è scarsamente fatto proprio dai principali partiti politici nel dibattito mainstream. La ragione di ciò può essere individuata in quanto appena esposto: dal momento che non esiste un punto di riferimento per il peacebuilding in Italia, non esistono nemmeno risorse per le quali competere. Inoltre, la comunicazione in materia di peacebuilding manca di un vocabolario accessibile ai non addetti ai lavori (sovente si usano termini inglesi dal significato oscuro per i non specialisti), e l’informazione inerente al peacebuilding è necessariamente complessa da trasmettere, visto che implica l’interazione tra molti differenti attori e dinamiche.

Questa scarsa “politicizzazione” del peacebuilding ha effetti collaterali positivi e negativi. In positivo, protegge il peacebuilding da strumentalizzazioni politiche, che sono invece frequenti in altri stati e in fora multilaterali (come osservabile in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma riscontrabile anche nei rapporti fra le diverse entità dello stesso sistema ONU). Ciò può garantire una migliore tenuta della direzione impressa al peacebuilding anche in presenza di cambiamenti di linea politica, più o meno legati a mutamenti nelle maggioranze di governo (e gli articoli pubblicati in questo numero di Human Security paiono ribadire che i protagonisti del peacebuilding italiano si muovono sovente tutti nella stessa direzione, anche se forse in modo più spontaneo che coordinato). Può ridurre inoltre il rischio di “colpi di scure” sulle risorse, poiché diffuse (quindi più difficili da colpire), e perché non percepite come connotate politicamente. La scarsa politicizzazione del peacebuilding ha, però, anche ricadute negative. In primo luogo, implica che tale tema non possa mai guadagnare una prominenza sufficiente da divenire una vera e propria agenda di governo (o di opposizione) prioritaria. Il peacebuilding rimane, inoltre, sempre relativamente distante dagli strati più ampi dell’opinione pubblica, ostacolando così una maggiore partecipazione e mobilitazione dei cittadini, che potrebbero invece contribuire enormemente a definirne (o ridefinirne) contenuti e priorità.

In conclusione di questa analisi, si possono delineare due direttrici lungo le quali è possibile immaginare di rafforzare il “made in Italy” anche in un settore particolare come quello del peacebuilding. La prima di queste riguarda una migliore coesione tra teoria e pratica del peacebuilding, un tema che è stato toccato trasversalmente da molti (se non tutti) gli autori di questo numero di Human Security. Ma se pure c’è concordia sulla necessità di agire su questa dimensione, la vera sfida è, però, definire il come farlo. Immaginare un ufficio dedicato al peacebuilding è probabilmente disfunzionale, in quanto rischierebbe di generare effetti negativi quali un’accresciuta burocratizzazione (che strozzerebbe le collaborazioni spontanee) e una maggiore politicizzazione (con conseguente rischio di discontinuità), a scapito dei risultati. Un’ipotesi da valutare è piuttosto la creazione di spazi condivisi di riflessione, non solo a monte e a valle di un qualunque intervento di peacebuilding, ma anche generalmente aperti. Questo consentirebbe agli scambi di moltiplicarsi, a prospettive diverse di dialogare e alle buone pratiche di diffondersi, in virtù anche di un’accresciuta conoscenza e fiducia reciproca. Un simile approccio non sarebbe certamente una panacea, ma potrebbe aiutare a imboccare il cammino giusto, facilitando la definizione di obiettivi e pratiche comuni che, nel medio e lungo termine, potrebbero declinarsi poi in un indirizzo più coerente e strategico del peacebuilding italiano (magari anche orientando risorse e capacità di conseguenza).

Una seconda linea di azione promettente riguarda la comunicazione. Come si è detto, il tema peacebuilding in Italia è decisamente poco noto e perlopiù confinato tra gli addetti ai lavori e gli accademici. Certamente non mancano interessati tra le altre categorie, ma l’argomento fatica a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica. Questo perché il peacebuilding è intrinsecamente complesso, difficile da comunicare e si appoggia a un vocabolario di non immediata leggibilità. Uno sforzo collettivo che si preoccupasse di rendere più immediatamente accessibile l’informazione sul peacebuilding e sull’operato dei “peacebuilder” italiani potrebbe contribuire non soltanto ad allargare la platea delle persone informate, ma anche rendere più evidente l’impatto del peacebuilding italiano, rendendolo dunque più resiliente ai cambi di vento politici anche a fronte di una maggiore istituzionalizzazione di questa prassi.

Definire i dettagli e l’architettura delle due linee di intervento qui immaginate – creazione di spazi di contatto e rafforzamento della comunicazione – è un esercizio complesso e delicato, che non può certo esaurirsi in poche righe. Agire di concerto su queste due dimensioni è però realisticamente alla portata del sistema Italia, e può auspicabilmente ben contribuire a mantenere il ruolo del nostro paese all’avanguardia anche nella non facile situazione che il mondo post-pandemia si appresta ad affrontare. Muoversi in questa direzione richiederà un confronto pragmatico e partecipato che faccia leva sul “genio collettivo” emerso nel corso della discussione presentata in questo numero di Human Security come tratto distintivo del peacebuilding italiano.

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Pubblicato
2020-07-16