Riccardo Morello

Alterità e marginalità nella letteratura tedesca tra Settecento e Ottocento

Forte appare la tentazione di leggere la figura di Robert Schumann come artista disperatamente tedesco – per usare un’espressione cara a Thomas Mann. L’idea centrale della sua arte, ciò che egli chiama «das Poetische», è in tutto e per tutto eredità della cultura romantica. Non è poesia né musica in senso stretto ma comprende entrambe. In un romanzo giovanile incompiuto intitolato Selene Schumann si autodefinisce «von Natur aus verschlossen, voll Zweifel, Tatendrang und Verzweiflung»1 («Per natura chiuso in me stesso, pieno di incertezze, desiderio di azione e cupa disperazione»), scegliendo poi la definizione non di Komponist ma di Tondichter, “Poeta del suono”. Romanticismo significa per Schumann una visione del mondo, non semplicemente una scelta di stili o di forme, poiché l’antitesi della poesia è la prosa del mondo «orrido, vero». Der Dichter spricht – il titolo di una delle Kinderszenen op. 15 – rimanda a tale dimensione di continuità, in cui il parlare poetico si trasforma naturalmente in musica e canto, come nel Lied. Il carattere parlante, dialogante, affabulante è per così dire l’essenza della musica schumanniana, la capacità geniale di trasformare le drammatiche lacerazioni dell’esistenza, le sue disarmonie, in pura poesia, di far balenare nella finitezza del frammento un riverbero di assoluto e infinito.

Schumann era imbevuto di letteratura romantica al punto di identificarsi totalmente, in forma quasi patologica, coi personaggi che popolavano la sua fantasia sovraeccitata, nutrita dalla lettura di Goethe, E.T.A. Hoffmann e soprattutto Jean Paul Richter, l’amatissimo, il più criptico tra gli scrittori a cavallo tra Settecento e Ottocento, intraducibile non soltanto per ragioni linguistiche, sempre in bilico tra idillio e tragedia, pedanteria e follia, umorismo digressivo alla maniera di Sterne e disperato nichilismo teutonico. Jean Paul ha lasciato profonde tracce nel pensiero di Schumann, nella sua formazione estetica e musicale. Non solo con la celebre Vorschule der Ästhetik2 – un vero condensato dell’estetica romantica – ma anche e soprattutto attraverso i suoi romanzi debordanti e affollati da figure di outsider, maestri, artisti falliti, sognatori, segnati dalla fatale disproporzione tra le loro aspirazioni ideali e il modesto talento personale, sempre sul punto di naufragare sulle secche della vita, in quella provincia tedesca in cui tra le vestigia polverose del Sacro Romano Impero al tramonto si intravedono i fermenti della modernità. Un outsider che scriveva libri popolati di outsider, come pure E.T.A. Hoffmann – l’altro grande nume tutelare di Schumann, il creatore della figura di Kreisler, il prototipo dell’artista moderno scisso e dilacerato. Da loro Schumann trae l’attenzione, anzi l’amore per il frammento come sintesi della totalità, del particolare che riflette il tutto, ma anche soprattutto la sensibilità e l’attrazione per tutto quel che è dissonante, le zone d’ombra, le fratture, i vuoti, i silenzi, l’inesprimibile, i momenti di stupefazione in cui l’assoluto sembra potersi rivelare, le epifanie, i momenti supremi ed estremi in cui la tensione spinta al massimo sta per allentarsi e risucchiarci nel buio. È l’insidia terribile della follia, la “geistige Umnachtung”, la famigerata prossimità tra genio e pazzia, ascesa e caduta vertiginosa, la massima chiarezza che precede il buio più fitto. L’esistenza stessa di Schumann testimonia questo drammatico crollo. Lo sforzo intensissimo della mente verso l’esaustività – che è la vera gelida tentazione demoniaca dello spirito tedesco, come intuito da Thomas Mann nel Doktor Faustus – magari sotto forma di attenzione per la costruzione musicale in tutte le sue articolazioni – l’ombra del buon padre Bach e della costanza artigianale da lui incarnata – sembra allora incrinarsi e infrangersi drammaticamente.

Jean Paul incarna un terzo elemento. «Kennen Sie nicht Jean Paul, unseren großen Schriftsteller? Von ihm hab’ ich mehr Kontrapunkt gelernt als von meinem Musiklehrer»3 («Non conosce Jean Paul, il nostro grande scrittore? Da lui ho imparato più contrappunto che dal mio maestro di musica»). Cosa intendeva Schumann con questa frase? Credo la capacità jeanpauliana di riunire diritto e rovescio, luce e ombra, di tenere insieme con autorevolezza demiurgica aspetti contraddittori e ossimorici dell’esistenza. Coincidentia oppositorum, cielo e inferi che si sfiorano pericolosamente come nel sublime finale del Faust col quale il compositore tedesco si è a lungo confrontato.

L’intensità e la bellezza di certi pezzi schumanniani, la loro perfezione, fa pensare a quel che Borges ha descritto in una poesia dedicata alla lingua tedesca (Al idioma alemán in El oro de los tigres4): «come l’algebra e la luna» – la lontananza siderale, l’illusione del possesso e poi il congedarsi, lo svanire misterioso che è proprio di tutto quel che è supremo, dono degli dei e dell’attimo. Ma la poesia di Borges evoca anche l’atmosfera di Mondnacht – il quinto Lied< del Liederkreis op. 39 su testo di Joseph von Eichendorff – il mormorio delle messi, le foreste silenti, la notte lunare, l’arcano e numinoso della natura, l’elemento crepuscolare, sfumato, inscindibile dalla musica di Schumann. Tutto ciò incarna la magia del Lied tedesco, ciò che Magris ha definito «totalità intensiva»,5 quel senso intimo e profondo di fedeltà e di appartenenza che tuttavia si manifesta intensamente nello struggimento del distacco e del congedo, nella rammemorazione e nel ricordo nostalgico. Tale intensità è passata attraverso le prove della storia: penso al finale de La montagna incantata dove il Lied incarna davvero la catastrofe tedesca e i tragici equivoci che l’hanno accompagnata, ma anche alle splendide pagine di Adorno sul Liederkreis appunto, in cui sapienza musicale, acu­tezza filosofica, amore ebraico per la melodia come espressione tangibile del divino e capacità critico-analitica formano una trama intellettuale irripetibile e commovente, segno tangibile di un’altra reciproca appartenenza – quella tra ebraismo e “deutsche Seele” – che non cessa mai di destare il nostro stupore e la nostra ammirazione.6

Vorrei definire brevemente il termine “alterità” utilizzato insieme a “marginalità” per questo sguardo panoramico sulla letteratura tedesca tra Settecento e Ottocento, che precede cronologicamente il grande Romanticismo musicale in cui Schumann si colloca. “Alterità” in quanto “essere e porsi come altro” – Elias Canetti in una celebre conferenza del 1976 sul compito dello scrittore7 parlava di “metamorfosi”, capacità di trasformarsi nell’altro – è l’atteggiamento di infinita apertura verso mondi, culture, modi di essere e di pensare diversi dal proprio nell’intento di comprenderli, assimilarli, reinterpretarli, che distingue la cultura tedesca di quest’epoca. La “Lust am Übersetzen”, l’enorme lavoro di traduzione nel senso più alto del termine, vale a dire di mediazione culturale, compiuta dagli scrittori tedeschi del tempo – tutti più o meno filologi – ha arricchito enormemente quella letteratura in fieri, creando le premesse di una stagione che alla fine apparve ai suoi stessi protagonisti unica e irripetibile («eine Epoche die sobald nicht wiederkehrt»8). Nel passaggio epocale travagliatissimo che porta dalla Rivoluzione francese, attraverso le guerre napoleoniche, alla Restaurazione si vide come alla crisi politica – la condizione che poi fu definita “miseria tedesca” – corrispondesse, come spesso avviene nella storia, una straordinaria fioritura culturale. È l’apparente paradosso della Germania quale apparve a Madame de Staël, il Paese dei poeti e dei pensatori, con le sue piccole corti provinciali dalle grandi aspirazioni universali; una nazione che, come dirà più tardi Heine, fa la rivoluzione col pensiero, con l’impulso della sua filosofia. L’epoca weimariana, l’età di Goethe e di Schiller, il periodo classico-romantico o come lo si voglia chiamare è animato da una spinta propulsiva prodigiosa che lo spinge a trascendere continuamente sé stesso, i propri angusti limiti geografici e temporali, a uscire da sé verso l’altro da sé. Nello stesso tempo – e qui veniamo al secondo termine del nostro titolo, “marginalità” – compie tutto questo lavorio sviluppando uno sguardo profondo e acuto coraggiosamente rivolto ai margini, alle zone d’ombra, a tutto quello che sembra disperso e frammentario, ma non per questo secondario, nell’intento di riscattare e salvare il particolare nell’universale e anche di porsi in ascolto, di spingersi ai limiti, oltre i limiti. Andare oltre, in profondità, esplorare nuove vie è quel che caratterizza quest’epoca ed è anche l’imperativo di un artista come Robert Schumann che di quella cultura fu figlio e si nutrì. Vorrei interpretare così, forzandone il senso, le parole di Goethe per cui nulla cade fuori dalla natura. Goethe, l’autore del Wilhelm Meister, il prototipo del Bildungsroman, il romanzo di formazione, è il creatore della poetica e straziante figura di Mignon che tanto affascinò l’epoca romantica e Schumann stesso. Ma tutta la letteratura di quegli anni è ricca di voci dissonanti, di figure poetiche segnate dalla marginalità e dalla tragedia, affacciate sull’abisso della follia: Hölderlin, Kleist, Büchner, artisti difficilmente collocabili in categorie prestabilite – Romanticismo, Realismo etc. – assurti dopo la loro morte, in altre epoche che hanno contribuito con la loro opera a precorrere, anzi che hanno preannunciato o addirittura profetizzato. La loro diversità non è tanto o soltanto quella descritta dal saggio di Hans Mayer del 1975 Außenseiter – tradotto allora in Italia da Garzanti,9 geniale anticipazione dei famigerati gender studies americani, in cui il celebre germanista ebreo tedesco analizzava la letteratura degli ultimi secoli secondo tre categorie antropologico-esistenziali: la donna, l’ebreo e l’omosessuale – anche se talvolta sfiora e interseca tali categorie, ma è data soprattutto dalla radicalità con cui essi hanno rivendicato e perseguito in modo spasmodico e disperato il diritto degli uomini alla felicità e alla gioia, uno dei cardini della cultura illuministica, un diritto e una esigenza destinati a scontrarsi con una realtà duramente segnata dal dolore e dalla sofferenza, la ricerca di uno spazio di libera vitalità che per affermarsi deve lottare contro i colpi e i rovesci del destino. Come non pensare a tal proposito all’imperiosa richiesta al cospetto della divinità rappresentata dal Dona nobis pacem della Missa Solemnis di Beethoven o all’Inno alla Gioia schilleriano del finale della Nona Sinfonia o ancora ai versi della Penthesilea di Kleist riguardo all'uomo «doch göttlich ist er, wenn er selig ist» («è divino solo quando è felice»).10 Lottare contro le forze che impediscono all’umanità di affrancarsi da ogni forma di schiavitù, quale nobile fine! Nel Settecento Lessing, il grande drammaturgo borghese e illuminista aveva cercato di vincere il dolore e la sofferenza celebrando poeticamente la ricerca della verità, il perseguimento di un ideale di armonia e di equilibrio tra ragione e sentimento che la generazione successiva, quella di Goethe e Schiller, avrebbe fatto propria, celebrandola in grandi capolavori come l’Ifigenia in Tauride, il grande corrispettivo letterario dei valori propugnati dall’Idomeneo o dal Flauto magico mozartiano.

Eppure a ben vedere l’itinerario poetico goethiano si apre con un libro maledetto, intriso del disagio e delle difficoltà esistenziali di una generazione che avverte se stessa come votata al fallimento, malata, incapace di vivere: I dolori del giovane Werther, il primo grande romanzo della letteratura tedesca, il successo mondiale del suo giovane astro nascente, è la diagnosi impietosa di una malattia dello spirito, il wertherismo, che colpisce un giovane rampollo della borghesia tedesca, nato e cresciuto in un microcosmo, in un mondo ancora sostanzialmente premoderno, quello dell’idillio sacro-romano-imperiale, nel momento in cui fa esperienza della complessità del mondo moderno e della vertigine che deriva dalla perdita di tutti i valori consolidati. Anche nel Tasso – il dramma in cui Goethe traspone lo shock della sua nuova vita a Weimar, l’incontro con la dimensione della politica dell’artista solitario e spaesato – emerge drammaticamente la dimensione irriducibilmente tragica dell’esistenza:

[…] Nur eines bleibt:
Die Träne hat uns die Natur verliehen,

Den Schrei des Schmerzens, wenn der Mann zuletzt

Es nicht mehr trägt.

[…]

Und wenn der Mensch in seiner Qual verstummt,
Gab mir ein Gott, zu sagen, wie ich leide.11

L’artista è colui che dà voce a questo fondo tragico dell’esistenza – il naufragio finale della coscienza di Tasso, il suo precipitare nell’abisso della follia, evocato dall’antica immagine della nave che si infrange sugli scogli – anche se il dolore umano in quanto tale resta indicibile e inesprimibile nella sua essenza più profonda, quando viene meno la stessa integrità della persona e l’uomo inclina verso l’autodistruzione. Questa è la strada percorsa anche da Robert Schumann.

Persino la grande drammaturgia schilleriana che caratterizza la stagione classica di Weimar fa i conti col tema del destino, della caduta e della sconfitta. Se il dramma intende essere lo specchio della realtà – e la realtà è spaventosa, poiché come dirà Wallenstein «inganno e ipocrisia sono ovunque e assassinio e veleno e spergiuro e tradimento» – l’eroe tragico deve perire, non vi può essere happy end, non esiste speranza, poiché la totalità del mondo ha le sue leggi ferree quanto quelle naturali, il divenire storico stritola fatalmente l’individuo nei suoi ingranaggi vanificando ogni tentativo di liberarsi e di perseguire la felicità. Ciò che per gli antichi era il fato, per i moderni è la politica: «la politica è il destino» aveva detto Napoleone a Goethe nel famoso incontro di Erfurt del 1808. Neanche l’arte può sovvertire la tragicità dell’esistenza.

«Ernst ist das Leben, heiter ist die Kunst»12 («Seria è la vita, serena è l’arte»), recita il prologo del Wallenstein, ma la totalità infranta del mondo, le rovine della storia umana, non possono essere ricomposte neppure dalla serena bellezza dell’arte, poiché «anche la bellezza deve morire» (Nänie13). Il teatro schilleriano è una galleria di sconfitte fatali, fallimenti e cadute inevitabili, di tragedie individuali ed epocali che mostrano come il grande classicismo tedesco si misuri proprio con le ombre, anche se non cessa mai di additare la luce.

L’attenzione per le esistenze umbratili e marginali si manifesta e si concretizza già nel Wilhelm Meister di Goethe nelle figure di Mignon e dell’arpista cui seguiranno poi tutta una serie di esistenze dilacerate, fatalmente segnate dal conflitto tra arte e vita, nella narrativa dell’Ottocento tedesco. Anzitutto il Taugenichts, il perdigiorno di Eichendorff, il prototipo dell’artista moderno on the road e di ogni forma di vagabondaggio e di erranza ossia di disagio e di inquietudine. In lui si esprime quel senso perenne di esilio, il non sentirsi mai a casa in nessun luogo, che deriva dalla consapevolezza già espressa da Schiller della fatale lontananza moderna rispetto alla naturalezza originaria, irrimediabilmente perduta, una natura vagheggiata e sempre ricercata «mit der Seele», cioè sul filo di una profonda nostalgia e che tuttavia si sottrae rimanendo «unkenntlich und still» –inconoscibi­le e silente – «wie eine wunderbar verschränkte Hieroglyphe».14

E poi gli artisti falliti di E.T.A. Hoffmann o il Lenz di Büchner, lo sfortunato poeta stürmeriano che, dopo aver sognato insieme al giovane Goethe una rivoluzione politica e letteraria, naufraga in un’esistenza raminga di reietto e disturbato mentale, sino a scomparire nella Russia zarista. Büchner vede in lui giustamente l’emblema di tutti i perdenti della storia e della vita, di coloro che sono destinati a soccombere e a essere calpestati. La frase finale del racconto – «so lebte er hin»,15 «così trascinò la propria esistenza» – esprime tutta la pesantezza e l’opacità del vivere e lasciarsi vivere, l’«orrenda noia», l’abisso della sofferenza di ogni creatura schiacciata dalla violenza del proprio ambiente, la straziante impossibilità di conciliare trascendenza e immanenza che travolge il protagoni­sta della novella trascinandolo nel gorgo della follia. L’orgoglioso e infelice drammaturgo nutrito di massime aspirazioni diviene agli occhi del mondo un povero pazzo vittima del proprio caos interiore che Goethe respinge con durezza dalla corte di Weimar non senza un eccesso di colpevole ingratitudine.

E infine Il povero suonatore di Franz Grillparzer,16 in cui il tema del fallimento e dell’autodistruzione è strettamente intrecciato alla musica, l’arte suprema, espressione dell’assoluto nel finito, ma anche forma di alienazione e frutto di un’educazione autoritaria disumana e castrante che schiaccia la persona impedendole ogni possibilità di armonioso sviluppo. È la messa in discussione più radicale di quell’ideale della Bildung che la cultura classica tedesca aveva così ben formulato mentre già ai romantici come Novalis era apparso pericolosamente astratto e conciliativo.

Schumann fu artista moderno profondamente legato a questa temperie culturale e da ultimo vorrei ricordare il suo ruolo di critico, ossia lo sguardo retrospettivo “storico” sulla musica del passato – l’amore e lo studio di Bach condiviso con Mendelssohn e prima naturalmente con Beethoven e Mozart – ma anche l’attenzione per la musica recente a lui prossima (Schubert) o contemporanea (Chopin). La sua è un’attenzione nuova – sottolineata anche dalla produzione saggistica e critica, di recensore – nuovamente in consonanza con la tendenza romantica a cancellare le tradizionali linee di demarcazione tra i generi, ad esempio tra critica e poetica. Una delle novità dei romantici di Jena (Novalis, Tieck e i fratelli Schlegel) era stata proprio questa commistione singolare tra pensiero analitico e intuitivo, prosa critica e espressione poetica, e il particolare rapporto che si crea tra il mestiere tradizionale del compositore e la riflessione sulla musica in Schumann è il prodotto di questo clima culturale.


1 Cit. in Dietrich Fischer-Dieskau, Robert Schumann. Das Vokalwerk, München, Deutscher Taschenbuchverlag, 1985, p. 17.

2 Jean Paul Richter, Vorschule der Ästhetik, secondo l'edizione di Norbert Miller, a cura, con revisione critica e introduzione di Wolfhart Henckmann, Hamburg, Meiner, 1990 (trad. it. Il comico, l'umorismo e l'arguzia. Arte e artificio del riso in una “Propedeutica all'estetica” del primo Ottocento, a cura di Eugenio Spedicato, Padova, Il Poligrafo, 1994).

3 Robert Schumann, Briefe. Neue Folge, 2a ed., a cura di F. Gustav Jansen, Leipzig, Breitkopf und Härtel, 1904, p. 149.

4 Jorge Luis Borges, L' oro delle tigri, in Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, vol. II, Milano, Mondadori, 1987, p. 501.

5 Claudio Magris, Prefazione a Lieder, a cura di Vanna Massarotti Piazza, Milano, Garzanti, 1982, pp. VII-VIII.

6 Theodor W. Adorno, Zum Gedächtnis Eichendorffs, saggio approntato nel 1957 come testo per trasmissione radiofonica e pubblicato in Id., Noten zur Literatur, Frankfurt, Suhrkamp, 1974, pp. 69-74, ed. it In memoria di Eichendorff, trad. di Enrico De Angelis, in Note per la letteratura 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, pp. 65-89.

7 Elias Canetti, Der Beruf des Dichters, München, Hanser, 1976.

8 Briefwechsel zwischen Goethe und Zelter in den Jahren 1796 bis 1832, a cura di Friedrich Wilhelm Riemer, vol. IV, Jahre 1825 bis 1827, Berlin, Duncker und Humblot, 1834, p. 44, lettera di Goethe a Zelter, 6 giugno 1825.

9 Hans Mayer, I diversi, Milano, Garzanti, 1977.

10 Heinrich von Kleist, Pentesilea, traduzione di Paola Capriolo con testo a fronte, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 170-171, verso 1697.

11 Johann Wolfgang von Goethe, Torquato Tasso, a cura di Eugenio Bernardi, Venezia, Marsilio, 1988, p. 252 (Un’unica cosa resta: / La natura ci ha donato le lacrime, / Il grido di dolore, quando diventa insopportabi­le. […] / E se nel dolore l’uomo ammutolisce / A me un dio ha concesso di dire quanto soffro).

12 Friedrich Schiller, Wallenstein: Il campo di Wallenstein. I Piccolomini. La morte di Wallenstein, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 2001, p. 104.

13 Friedrich Schiller, Nänie, in Sämtliche Werke, vol. I, München, Hanser,19623, p. 242.

14 Joseph von Eichendorff, Das Marmorbild, in Das Marmorbild. Das Schloß Dürande, Stuttgart, Reclam, 1976, p. 34.

15 Georg Büchner, Lenz, a cura di Giorgio Dolfini, Milano, Adelphi, 1989, p. 80.

16 Franz Grillparzer, Il povero suonatore, a cura di Rita Svandrlik, Venezia, Marsilio, 1993.